Episodio 1
DICESI TEAM
BUILDING...
Questa
cosa mi ricorda il liceo. Quando avevo un diario e il mio primo pensiero al
mattino era lui. Ma adesso sono adulta, posso riuscire lo stesso a mettere nero
su bianco quello che realmente penso?
Non
ho scelta. Devo farlo.
Giuliano,
che non ho ancora capito bene per quale società lavori, ci ha appena chiesto di
farlo. Non nella solitudine della mia
casa, ma qui, con altre centoventi persone con una musica di sottofondo secondo
lui rilassante, ma che mai ascolterei di mattina presto.
La
domanda che ci pone Giuliano è: quali sono stati i vostri primi pensieri
stamattina? Lui sostiene che appena svegli, i nostri cervelli elaborano alcune
tra le migliori idee della giornata. Possibile?
Siamo nel mezzo di una sessione di aggiornamento. La chiamano Team Building. All'inizio è stato interessante. Si è
parlato di comunicazione, anzi di comunicazione positiva. Giuliano ci ha fatto
notare come pronunciare la stessa identica frase con tono diverso può cambiare
di tantissimo il significato trasmesso. Questo tra colleghi è importante. Ci ha
fatto anche notare l’importanza di non emettere giudizi personali, mostrandoci
come fare per rimanere sul piano delle opinioni professionali. Anche questo è
importante tra colleghi, anche se più che di comunicazione si tratta di buone
maniere...
Invece
quello che ci chiede di fare adesso... secondo me non ha senso. Non capisco
come scrivere separatamente i propri pensieri su un diario possa rafforzare il
team.
E poi
noi siamo dei programmatori, nevrotici “scrittori” digitali, compositori virtuali...
Più che carta e penna avrebbero dovuto fornirci tastiera e monitor... Forse
avremmo avuto meno difficoltà.
“Vito!”,
bisbiglio a voce bassissima sperando che il mio collega mi senta. Si volta
indirizzandomi una smorfia che credo significhi “che c’è?”.
“Sei
riuscito a scrivere qualcosa?”, automaticamente ruota il quaderno che ha
davanti a sé per lasciarmi vedere: due pagine intere. Caspita, devo darmi una
mossa.
Il
fatto è che credevo di non dover riattraversare mai più quella fase. Quella in
cui pretendevo che le pagine di un diario potessero in qualche modo custodire i
miei segreti e, perché no, aiutarmi a risolvere i miei problemi di adolescente.
“Coraggio”,
la voce di Giuliano alle mie spalle interrompe i miei pensieri, “non è ancora
riuscita a scrivere nulla? Guardi che non è facoltativo, qui stiamo lavorando”.
Annuisco
solo con la testa e fingo di cominciare a scrivere. E se non scrivo cosa fanno?
Mi licenziano? Non siamo ridicoli. Ho ben altre cose a cui pensare. Per esempio
al matrimonio della mia amica. Katia. Sono anni che non ci vediamo eppure,
quando mi ha telefonato ieri sera per comunicarmi la notizia, sono stata
felice. Quel tipo di felicità che provi quando ti succede qualcosa di
straordinario.
Incrocio
lo sguardo di Giuliano e mi costringo a mettere subito qualcosa nero su bianco.
07/03/2012
Egregio diario (di sicuro usare l’aggettivo caro, dopo
anni di indifferenza, non sarebbe appropriato), ti scrivo messa alle strette da
questo consulente che mi guarda minaccioso, ma tu sai che diversamente non mi
riavvicinerei mai a te. Se lo facessi probabilmente dovrei ripartire da
quell’ultima pagina, ma anche se sono passati anni non credo che riuscirei a
completarla, perché in cuor mio so che neanche tu capiresti la situazione.
Invece sono costretta a parlarti, a raccontarti i miei
primi pensieri del mattino. Stamattina ho pensato intensamente a Katia. Ieri
sera mi ha telefonato per darmi la notizia più straordinaria che potessi mai
aspettarmi. Mario le ha chiesto di sposarlo. E lei ha accettato! Ha sempre
affermato, quasi con fierezza, che non si sarebbe mai sposata. Che senso aveva
sposarsi? Bastava convivere, no? Evidentemente no. Almeno non è abbastanza per
loro due. Mario e Katia. Non sono mai stati una coppia ordinaria, anzi. Si sono
sempre distinti per bellezza e armonia. Sono il genere di coppia da assumere
come modello di riferimento, talmente uniti da sembrare un’unica entità.
Quando me l’ha detto mi è parso di sentire lo stupore
del pubblico. Sì, è esattamente come pensi. Sono passati anni, ma ancora non ho
smesso di immaginare la mia vita come un lunghissimo telefilm e continuo
imperterrita a sentire risate di sottofondo e stacchetti musicali in vari
momenti. E sì, sono consapevole che queste sono mie turbe mentali, ma trovami una
persona al mondo che non abbia dei disturbi psichici. Appunto.
Tempo scaduto. Finalmente Giuliano ha decretato lo
stop a questa assurda attività di introspezione o come si chiama. Perciò...
addio maledetto diario.
Mai più tua
Sara
Chiudo
con impeto l’agenda sperando di non essere costretta a riaprirla. E forse sono
salva perché le ragazze dello staff stanno cominciando a distribuire delle
cartelline.
“Non
aprite ancora per favore”, la richiesta di Giuliano al mio collega seduto in
prima fila sembra più un imperativo morale che un invito. Lo dice come se
scoprire il contenuto della cartellina prima degli altri rappresentasse una
mancanza di rispetto irrimediabile. “Aspettate che la ricevano tutti”, aggiunge
dopo poco. A dispetto di quanto dice lui io una sbirciatina voglio darla.
Sembra
una copia del discorso di Steve Jobs ai neolaureati di Stanford. Come se il 90%
di noi non si trovasse qui perché ispirato da quel folle uomo…
“Leggete
attentamente le parole di Steve Jobs...”, mi conferma Giuliano invitandoci con
un cenno ad aprire le cartelline, “e a proposito sapete chi era Steve Jobs?”
Una
risatina parte dalle persone presenti e questa volta non è la mia
immaginazione.
“Deduco
di sì. Quello che vi chiedo è di leggere singolarmente il brano e poi riportare
le vostre impressioni sul vostro diario personale”.
Cavolo.
Di nuovo.
“Chiedo
scusa...”, alzo la mano per attirare l’attenzione di Giuliano, ma non aspetto
che mi autorizzi a parlare: “non capisco come scrivere singolarmente su un
diario possa rafforzare il rapporto tra colleghi... Per carità, non voglio
contestare i suoi metodi, ma non potremmo parlare tutti insieme delle nostre
opinioni su Steve Jobs?”
Con
la coda dell’occhio vedo Vito scuotere la testa. Figurati se per una volta
poteva stare dalla mia parte quello.
“Mumble
Mumble” - mumble? - “Vediamo...
Potete discuterne tutti quanti insieme? Direi di no. Mi dispiace... ehm... non
riesco a leggere il suo nome...”
Per
forza, non porto il cartellino che mi hanno dato da appendere al collo...
sinceramente non credevo che l’avrebbero notato. Lo prendo in fretta
dall’agenda e lo sventolo per aria in modo che sia visibile.
“Sara?”,
mi chiede e io annuisco, “bene Sara”, prosegue Giuliano con calma eccessiva,
“non potete svolgere l’attività tutti insieme semplicemente perché questo non è
affatto un esercizio per rafforzare il team. Piuttosto serve a rafforzare lo
spirito del singolo”.
Giurerei
di aver visto questo tizio in una soap opera di qualche anno fa. Con quel
ciuffo grigio buttato all’indietro in modo solo apparentemente casuale e gli
occhiali tondi, sostanzialmente potrebbe sembrare una persona perbene se non
fosse così artefatto.
Mi
fissa ancora per qualche secondo come per accertarsi che non voglia rovinargli
di nuovo la scena. Fingo indifferenza abbassando lo sguardo. Ad uno schiocco
delle sue dita parte di nuovo quella musica finta new age e finta jazz e tutti
cominciano a leggere. Sospiro rumorosamente e mi immergo anch’io nella lettura
del brano.
Devo
dire... intenso. Non ricordavo quanto fossero belle queste parole di Steve
Jobs. Sopra ogni cosa mi colpisce una frase. Quella in cui dice di non
accontentarsi. Di non smettere mai di cercare il lavoro dei propri sogni. Secondo
Jobs, bisogna essere innamorati del proprio lavoro e se non lo si è non bisogna
fermarsi. Bisogna essere affamati e folli.
Folle.
Così mi chiamerebbe mio padre se lasciassi il mio lavoro. E poi perché dovrei
farlo? Io amo il mio lavoro. Sì, beh... mi piace. L’ho scelto io, no? Nessuno
me l’ha imposto, quindi mi piace.
Anche
se a volte, di solito a inizio giornata, sento come un macigno sullo stomaco
che mi impedisce di rilassarmi... Anche se è un ambiente talmente competitivo e
falso da non poter coltivare nessun rapporto umano... Anche se faccio ogni mese
quaranta ore di straordinario, dato che il mio capo crede di essere il padrone
dei lavoratori e non il nostro responsabile... Ma questo non significa che non
mi piaccia.
Prendo
l’agenda e comincio a scrivere.
Adesso anche Steve Jobs mi dà consigli su come vivere
la mia vita. Possibile che credano tutti di saperne più di me?
“Oh
oh”. Giuliano, di nuovo alle mie spalle. Il tono è quello di chi ha sorpreso un
bimbo a fare una marachella. “Sara, mia cara, non è ancora finito lo
spazio-tempo per la lettura... Come mai ha già iniziato a scrivere?”
Lo
guardo confusa... Spazio-tempo? “Ecco io... ho già finito di leggere, quindi...
e poi scusi Giuliano, ma che differenza fa?”
Lo
strano consulente scuote impercettibilmente la testa e si allontana. Alla
faccia dell’atteggiamento positivo e delle tecniche di comunicazione di cui ha parlato
prima.
Ci
penso solo per una frazione di secondo prima di dare inizio ad una improbabile
catena di eventi.
“Giuliano”,
mi alzo in piedi per un istante ma poi mi riseggo subito.
“Sì
Sara, mi dica”, il suo tono è di nuovo gioviale e disponibile. Quest’uomo deve
essere mentalmente instabile, altrimenti non mi spiego i suoi continui cambi di
atteggiamento.
“Quando
si pone una regola bisogna che sia ben formulata, altrimenti possono nascere
dei conflitti”, mentre parlo Giuliano continua ad annuire con la testa: un’altra
delle sue tecniche. Questo mi innervosisce ancora di più.
Sto
per replicare, ma qualcun altro mi anticipa.
“In
parole povere”, Davide, un mio collega programmatore, si alza in piedi, “lei
non aveva detto che bisognava aspettare la fine della musica per poter
scrivere, quindi non ha nulla da rimproverare a Sara”.
“Per
amor del cielo!”, Vito interviene, nervoso, “Davide... mettiti seduto! Non
credo che Sara abbia bisogno di avvocati”.
“Avvoc...
Stai zitto, Vito! Pur di fare bella figura a lavoro cammineresti addosso ai
tuoi colleghi”.
Osservo
la scena impietrita. Sono stata io a scatenare questo?
“Ma stai
zitto tu che non capisci niente”, la conversazione sta prendendo una brutta
piega. Ma Giuliano… quando pensa di intervenire per moderare un po’ i toni?
“Scusate!”,
alzo anch’io la voce. “Non c’è bisogno di scaldarsi tanto... la mia era solo
una domanda”.
“E
no!”, un tizio di cui neanche ricordo il nome, “la tua era un’affermazione
sulle regole e i conflitti. E a proposito di regole... perché non indossi il
tesserino come tutti noi?”
Mi
sembra di essere tornata in quinta elementare. E tu perché non ti fai gli
affari tuoi? Mi verrebbe di replicare così, ma gli darei corda e non voglio.
Quello che voglio è riportare la conversazione su toni meno accesi.
“Caro
collega”, comincio ad annuire piano esattamente come fa Giuliano, che nel
frattempo si limita ad osservarci mentre ci scanniamo, “proporrei di darci
tutti una regolata... Ecco, vedete”, estraggo il tesserino dall’agenda,
“provvedo subito ad indossarlo...”
“Avresti
dovuto pensarci prima!”, replica il tizio indignato.
Ma
che cavolo sta succedendo in questo posto?
“Calmati
Enzo”, sempre Davide, il mio difensore, “la tua rabbia è sproporzionata... la
stai attaccando per una mancanza minima”.
“Le piccole
regole imposte da me e dal mio team...”, finalmente interviene Giuliano e con
un cenno della mano fa sedere i colleghi rimasti in piedi, “...servono a farvi riflettere
su come vivete il vostro lavoro... Evidentemente Sara è abituata a boicottare
piccole regole implicite che reputa poco importanti ai fini dei suoi scopi
personali”.
Sgrano
gli occhi indignata. Questo è un vero e proprio attacco personale.
“Perdona
l’intromissione, Giuliano”, dico con quanto garbo riesco a trovare tra il nervosismo
della mia mente, “dove sono finite tutte le tue psico-cazzate su come
comunicare tra colleghi? Non ti permetto di offendermi”. Alla faccia del garbo…
“Ecco!”,
mi indica gioviale, “ad esempio... Dandomi del tu, Sara ha violato un'altra
regola implicita che ci imponeva di darci del lei”.
“Si
tratta di educazione”, replica il tizio anonimo di cui ho appena scoperto il
nome. Ma perché ce l’ha tanto con me?
Da
qualche parte deve esserci una telecamera nascosta. Sì, deve essere per forza
una candid camera... altrimenti una persona come Giuliano non potrebbe
esistere. Nel pieno di una sessione di Team Building è riuscito a tirar fuori
il peggio dalla squadra. Perché cosa c’è di peggio di colleghi che vincono il
muro dell’ipocrisia e della falsità e cominciano a dirsi realmente quello che
pensano l’uno degli altri?
In
effetti...
Che Giuliano
l’abbia fatto di proposito per indurci ad essere più schietti?
Quest’ultima
idea mi sembra che abbia più senso. Tutto questo incontro potrebbe essere un
gigantesco test per valutare la nostra sincerità. E se dicessi loro una volta
per tutte quello che penso? Non credo se la prenderebbero più di tanto dato il
tasso di indifferenza reciproca cui siamo arrivati… Per cui forse vale la pena
di tentare.
“Vincenzo,
io non mi sono mai permessa di esprimere giudizi su di te, ma dato che mi dai
della maleducata... Fammi capire bene: sei frustrato perché non riesci ad
emergere professionalmente e vorresti metterti in luce offendendomi? E già che
ci sono... Vito, smettila di fare di tutto per compiacere i capi... guarda che
non hanno sempre ragione su tutto. Credo tu sia un arrivista fallito. Se è per
questo lo pensiamo tutti...”
E non
so che mi prende... continuo così per almeno cinque minuti. Salvando la pace di
Davide e di quelli che non conosco, sparo a zero praticamente su tutti. E più
vado avanti, meglio mi sento. Forse
la tecnica di Giuliano funziona: essendo sinceri ci si libera del marcio che si
ha dentro.
Peccato
che non tardino ad arrivare le risposte dei miei colleghi. Altro che
indifferenza... La maggior parte di loro crede che io sia incompetente e
raccomandata... da chi, poi, non l’ho capito. Parlano tutti insieme... sembra
una specie di ressa e anche se il litigio è solo verbale, ad ogni affermazione
sento come se mi schiaffeggiassero.
In
ultimo Davide mi guarda e, a gesti e a bassissima voce, mi fa: “ma che
combini?”
Quasi
indifferente faccio spallucce. Immaginavo che qualche collega nutrisse
dell’astio per me, ma non credevo potessero arrivare a pensare che io sia raccomandata.
Questa insinuazione mi offende più di tutto il resto. Di solito dei
raccomandati si pensa che siano incapaci o peggio strafottenti... è davvero
questo che pensano di me? Addirittura Amanda, del reparto finance, si alza in
piedi per dirmi: “Già che ci sei fatti un bel taglio di capelli che mi sembri
Maria Maddalena...”. E io che le avevo solo detto di smetterla di leccare il
culo al suo responsabile prossimo alla pensione... ma lo pensano tutti che non
sarebbe mai in grado di prendere il suo posto, quindi perché si scalda tanto
con me?
La
situazione precipita velocemente: Vito mi osserva con gli occhi socchiusi, le
labbra leggermente increspate in una smorfia di disprezzo; Amanda, rossa come
un peperone finge indifferenza, ma credo sia consapevole che Moratti non smette
di guardarla. Probabilmente, da porco quale è, sta pensando a come sfruttare il
suo servilismo interessato e, credetemi, non vorrei essere nei panni della mia
collega... Più distante da me sono nati addirittura dei piccoli focolai di
dialogo... ehm, sarebbe più giusto dire di discussione accesa, tra colleghi del
piano di sotto che blaterano qualcosa sull’inutilità di questa sessione di Team
Building.
Mi
guardo intorno sempre più stranita e finalmente riesco a trovare qualcosa di
comico in tutta questa situazione: Davide. Passa in rassegna tutte le
conversazioni ridendo delle affermazioni brusche e goffe dei nostri colleghi e
ad ogni offesa, ad ogni accusa, ad ogni litigio, lui ride. All’inizio in modo
contenuto, ma da quando Samuele mi ha chiamata finta bionda slavata gli sono
spuntate addirittura le lacrime dal ridere.
Mannaggia
alle finte bionde, è colpa loro se nessuno crede al fatto che io lo sia
davvero.
E poi
non venitemi a dire che la mia vita non è come una sit-com... nella realtà
quando mai sarebbe successa una cosa simile?
“Tutto
ciò avrà delle conseguenze”.
Pasquale,
il mio capo, mi ha convocata nel suo ufficio. Mi ha fatto chiamare dalla sua
segretaria che, in verità, mi ha praticamente trascinato via dal Team
Building... (per carità! Se Gilda sapesse che l’ho chiamata segretaria… “il mio
ruolo è assistente personale”, puntualizzerebbe risentita).
Meno
male, ho pensato, quando Gilda si è avvicinata a me, ma adesso non sono più
tanto sicura di dovermi sentire sollevata. Normalmente il tono di voce di
Pasquale è talmente basso da farmi sempre dubitare delle mie capacità uditive.
Ma questa volta no. Stavolta lo sento forte e chiaro.
“Giuliano
mi ha riferito che mai, nei suoi vent’anni di carriera, gli era capitato un
caso simile. E sinceramente, Sara, neanche a me, nei miei trent’anni di lavoro,
era mai capitato di assistere a un simile spettacolo”.
Ma di
che spettacolo parla? Se non era neanche in sala, come fa ad esprimere
opinioni? E poi io non ho fatto altro che dire la verità... Deglutisco e guardo
il mio capo, incapace di parlare.
“Insomma,
si può sapere che ti è preso? Offendere senza motivo i tuoi colleghi dopo tutto
quello che hanno fatto per te?”.
Cosa?
Cosa avrebbero fatto i miei colleghi per me? Cerco di calmarmi, ma quest’ultima
affermazione di Pasquale mi innervosisce parecchio. Dal primo giorno che ho
messo piede in questo posto l’unico aiuto che ho ricevuto è stato quello di
indicarmi i ristoranti migliori per la pausa mensa…
Mi
schiarisco la voce: “Libero di non credermi, ma non sono stata io a dare inizio
alla discussione. E’stato Giuliano che per primo mi ha offeso e poi quell’altro
là... come si chiama... ha continuato a offendermi dandomi della maleducata e
da lì è stata una specie di valanga. E comunque, Pasquale, se non volevi che
accadesse, perché hai convocato questa società di consulenti? Dire ai colleghi
la propria opinione faceva parte del team building... Altrimenti perché Giuliano
si limitava ad fomentarci l’uno contro l’altro, senza cercare di moderare i
toni?”.
Pasquale
scuote la testa. Brutto segno. “Da qualche tempo la redditività della nostra
filiale è scesa del 20%. Secondo la sede centrale, il più delle volte a
oscillazioni di questa portata si può porre rimedio semplicemente con dei
cambiamenti interni nel personale”. Pasquale fa una pausa... altro brutto
segno. “In altre parole, Sara, Giuliano non è venuto qui per rafforzare il
nostro team, ma per scoprire chi contribuisce a creare dissapori tra colleghi”.
“E tu
credi che io...”
“In
verità avrei pensato a tutti meno che a te. Da quanto lavori qui... tre anni?”
“Cinque”.
“Davvero?
Così tanti? Comunque... Devo riconoscere che in cinque anni non mi hai mai dato
alcun problema, però sinceramente… adesso sei in una brutta situazione”.
Cercando
di non attirare l’attenzione di Pasquale mi guardo un po’ in giro. Se dovessi
nascondere una telecamera in questo ufficio dove la metterei? Perlustro
velocemente la stanza con gli occhi, ma non mi sembra di vedere nulla... a meno
che... in mezzo a quei fiori sul davanzale della finestra alle spalle di
Pasquale?
Mi
alzo lentamente e mi avvicino a Pasquale. La sua espressione cambia
radicalmente. “Sara... ma che vuoi fare?”, all’improvviso diventa rosso come un
peperone.
Ma
che ha capito?
“Voglio
solo aprire un po’ la finestra se posso...”
Pasquale
si alza di scatto. “Ci penso io. Mettiti seduta”.
“Ehm...
Quei fiori... Andrebbero innaffiati... se vuoi posso farlo io... passami il
vaso”, dico ostentando indifferenza.
“Non
ce n’è bisogno”, dice spazientito spalancando la finestra, “siediti per
favore”, mi intima, sedendosi pure lui.
Non
ho scelta, mi seggo anch’io. Tra l’altro che assurdità mi viene in mente... una
telecamera nel vaso di fiori... Non è una sit-com, ma la realtà: credo che
Pasquale stia cercando di licenziarmi.
“Dicevo
che sei in una brutta situazione. Giuliano riferirà il tuo nome alla sede
centrale, per cui sarò costretto a prendere dei provvedimenti...”
A
fatica mi costringo a parlare: “Provvedimenti... un cambio reparto... cambio
mansione o vuoi dire...”
Pasquale
alza gli indici delle mani, chiude gli occhi e scuotendo la testa, come un
direttore d’orchestra, chiude il mio tentativo di saperne di più con una
rotazione sincronizzata delle dita. Poi sospira, come se gli pesasse
continuare. “Per favore, prenditi qualche giorno di ferie. Giusto il tempo di
interfacciarmi con la sede centrale”. Non mi guarda negli occhi. Tipico di Pasquale.
Risoluta
e decisa a non dargli soddisfazione replico stringata: “Va bene”.
Vuol
dire che sfrutterò questo paio di giorni liberi per rilassarmi un po’. Dico
sempre che questo lavoro mi stressa per cui cosa c’è di meglio di un paio di
giornate di relax casalingo?
“Allora
è deciso”, interviene il capo ancora senza guardarmi. Smanetta un po’ vicino al
computer, poi riprende: “Ci vediamo tra tre settimane... tanto vedo qui che hai
una marea di ferie da consumare”, e così dicendo ruota il monitor verso di me
per mostrarmi la mia pagina personale sul sistema di rilevazione presenze
aziendale. Come se non sapessi quante ferie ho accumulato...
“Tre
settimane?”, replico allarmata, “e come faccio con il progetto Valente? Lo
seguo da un mese... Siamo in fase conclusiva...”
“Tutto
il tuo lavoro passerà a Davide. Tanto stavate lavorando insieme per Valente o
no?”
Annuisco
e mi alzo di scatto. Cinque anni di lavoro e bastano cinque minuti di follia in
un’aula per rischiare il posto di lavoro.
“Sara”,
mi chiama il viscido, “non ti sto licenziando. Devo solo capire cosa fare di
te”.
Un’espressione
di disgusto trasfigura il mio viso. Scuoto la testa e vado via.
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